Tra l’8 e il 10 aprile 1918, in una fase in cui, pur perdurando l’incertezza sull’esito del conflitto, si veniva rafforzando la prospettiva di una vittoria dell’Intesa, grazie soprattutto all’entrata in guerra degli Stati Uniti, si tenne a Roma il Congresso delle nazionalità oppresse dall’Impero austro-ungarico, cui parteciparono gli italiani e rappresentanti dei popoli sotto il dominio austriaco (polacchi, cecoslovacchi, romeni e jugoslavi), per cercare di concordare i lineamenti dell’Europa del dopoguerra; al congresso parteciparono i vari gruppi interventisti italiani, ed in particolare fu molto attivo Gaetano Salvemini. Al termine fu sottoscritto il Patto di Roma, che indicò nel rispetto delle nazionalità il principio cui si sarebbe dovuto basare la ridefinizione dei confini nell’Europa postbellica; tale patto, pur sprovvisto di carattere ufficiale, mirava tra l’altro a stabilire buoni rapporti tra italiani ed jugoslavi, abbandonando ogni pregiudiziale anti jugoslava ed affermando la necessità della dissoluzione dell’Impero Austroungarico.
In realtà gli accordi previsti nel Patto nel dopoguerra rimasero lettera morta, in particolare per l’atteggiamento dei nazionalisti italiani, che non intendevano rinunciare alla Dalmazia, assegnata all’Italia dal Patto di Londra del 1915 ma che era abitata in netta prevalenza da slavi e che quindi, secondo gli accordi romani, sarebbe invece dovuta far parte del nuovo Stato jugoslavo.